“Si ricordi”, mi dice srotolando l’ennesimo tappeto, “che quel che ha permesso ai persiani di restare persiani per milioni di anni, quello che ci ha permesso di restare noi stessi malgrado tante guerre, invasioni e occupazioni, è stata la nostra forza spirituale, non quella materiale; la nostra poesia, non la tecnica; la nostra religione, non le fabbriche.
Che cosa abbiamo dato al mondo?
La poesia, la miniatura e il tappeto.
Come vede, tutte cose inutili dal punto di vista produttivo. Ma attraverso di esse ci siamo espressi.
Abbiamo dato al mondo questa meravigliosa e irripetibile inutilità.
Abbiamo dato al mondo qualcosa che non ha reso la vita più facile, però l’ha abbellita, sempre che una distinzione del genere abbia senso.
Per noi, per esempio, il tappeto è un bisogno vitale. Lei srotola un tappeto in mezzo ad un deserto ardente, si sdraia sopra e si sente come in un prato verde.
Sì, i nostri tappeti ricordano i prati in fiore. Vi si vedono fiori, giardini, laghetti e fontane.
Tra i cespugli si aggirano i pavoni.
Un tappeto dura per sempre; un buon tappeto mantiene i colori per secoli e secoli. Quindi, anche vivendo in un deserto spoglio e monotono, lei vive in un eterno giardino che non perde mai colori nè freschezza.
Può anche sbizzarrirsi a immaginare i profumi, il mormorio del ruscello, il canto degli uccelli. E allora si sente bene, si sente importante, più vicino al cielo: si sente un poeta.”

“Shah-in-Shah” , Ryszard Kapuscinski
Iran
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